Ha ancora senso parlare di social network nel 2025?
- Federica Slokar

 - 23 lug
 - Tempo di lettura: 3 min
 
Aggiornamento: 15 ott
Community fantasma, contenuti da 15 secondi, scroll compulsivo. Tutto si è evoluto, tranne il nome. Ma social suona rassicurante, quindi non si mette in discussione.
C'è una parola che dovremmo smettere di usare: social.
Non perché non esistano più, ma perché non hanno mantenuto quello che promettevano. Continuiamo a chiamarli così per abitudine, come chiamiamo telefono un dispositivo che ormai fa tutto, tranne telefonare. Ma ormai è solo un riflesso automatico, come quando chiami cena due fette di pane buttate giù davanti al computer.
Nel 2025 tutti parlano ancora di social come se fossero spazi di relazione, comunità, scambio. Ma effettivamente l’unico posto dove qualcuno apre bocca è Facebook, e quasi sempre non per parlare. Per mordere. Chiunque ci sia finito dentro almeno una volta sa benissimo che non è una conversazione: è un’arena. Un Colosseo 2.0. Ma con meno etica e grammatica.
Facebook è ancora uno spazio comunitario, tecnicamente.
Ma non unisce più nessuno. Non c'è dialogo, non c'è scambio. Una volta si cercava un coinquilino, si organizzavano viaggi, si parlava di libri. Oggi scatta la rissa per chi ha buttato l’umido nel secco o per il tizio che al parcheggio della Coop occupa due posti. Tra commenti al vetriolo e meme del 2014. Sempre che tu non sia già stato bannato dal gruppo per aver augurato un buongiornissimo di troppo.
Tutti gli altri? Intrattenimento, non relazione.
Instagram è un catalogo di vite al filtro.
TikTok è uno show a scorrimento veloce.
LinkedIn è un curriculum travestito da discorso motivazionale.
YouTube è televisione.
Twitter - pardon, X - è un campanello rotto in una stanza vuota
Threads non pervenuto.
Chiamarli social è come entrare in biblioteca aspettandoti un aperitivo con DJ set. L’unico aspetto sociale rimasto è la frustrazione condivisa.
Siamo online più che mai, ma siamo connessi?
Oggi le piattaforme sono progettate per trattenere, non per unire.
Non ti chiedono di partecipare: ti invogliano a consumare.
Non ti stimolano a parlare: ti spingono a restare, scrollare, skippare.
Contenuti brevi, veloci, emozionali, spesso tossici. Non perché abbiano valore, ma perché performano. Un criceto sul tapis roulant, ma con il feed al posto della ruota. Il loro obiettivo è tenerti dentro. E in questo sono geniali.

Ma non diamo tutta la colpa agli algoritmi.
Siamo stati noi, a un certo punto, a volere contenuti più brevi, più leggeri, più veloci. Perché avevamo poco tempo, la testa altrove e il cervello in modalità risparmio energetico. Non era il momento per riflessioni profonde: volevamo qualcosa da consumare velocemente, come uno snack aperto con i denti in pausa pranzo.
Le piattaforme non ci hanno solo cambiati. Ci hanno osservati, capiti, seguiti. E ci hanno accompagnati nella trasformazione da utenti curiosi a professionisti del pollice in costante movimento e l’attenzione in saldo.
Ovviamente, non siamo tutti uguali.
Il modo in cui usiamo questi spazi digitali cambia con l’età, il contesto, l’intenzione. La Gen Z, ad esempio, non è in fuga: semplicemente ha cambiato passo. C’è chi resta immerso, chi alterna maratone di scroll a disintossicazioni programmate, chi riscopre la carta, le chiacchiere dal vivo, le foto sfocate senza filtri.
Non è disconnessione: è gestione attiva.
Chiamala consapevolezza, o semplice istinto di sopravvivenza.
Allora ha senso esserci?
Dipende da come lo fai.
Questi spazi digitali non servono a raccontarti: servono a farti riconoscere al volo, mentre la gente scrolla con un occhio solo e mezza attenzione. Non sono più luoghi di dialogo. Sono slot pubblicitari travestiti da contenuto. E in quel flusso, veloce, distratto, saturo, o lasci il segno, o sei già stato skippato prima ancora che qualcuno capisca chi sei. Come una pubblicità ben fatta nel bel mezzo di un programma che nessuno guardava davvero. Ma che poi ti ritrovi a canticchiare tutto il giorno.
Perché oggi i social non sono più piazze.
Sono spot veloci in un feed che non aspetta.
E se non lasci il segno, sei già stato dimenticato.